salò. Storia di guerra - pino mongiello

pino mongiello
Vai ai contenuti

la mostra
salò. storia di guerra
il monumento ai caduti
"dedicato al dolore delle madri"



opere di attilio forgioli
fotografie di pino mongiello

biblioteca civica di salò, via marco leonesio, 4 salò
dal 4 novembre 2021 all'8 gennaio 2022
da: Fausto Lorenzi,
IN TRINCEA DAVANTI AL MONUMENTO AI CADUTI,
presentazione in apertura di catalogo, 2021

Il rituale del lavaggio del cadavere.

Etica ed estetica sono in costante conflitto. L’arte abbellisce ogni cosa, persino l’orrore di un massacro, come ha fatto Zanelli nella gravità titanica dei suoi soldati, e il fotografo ne sonda l’aspirazione alla classicità, focalizzando i volti come vere e proprie maschere della tragedia e della sceneggiata patetica, che raccontano, ora, con lamento composto l’epicedio di una barbarie suscitata dalla cieca volontà di potenza.
Qui nasce una meditazione sulla morte. L’approccio estetico si apre a una coscienza etica.
I ritratti dei soldati bronzei nel bianconero di Mongiello, intenso e concentrato, sono capaci di rivelare sorprendente sobrietà e acquistano forza pacata e contemplativa.
Il fotografo prova a estrarre, dalle masse severe e compatte delle figure, dal mantello che scende come un sudario, un ritmo di volumi in tensione spirituale. Ma poi, dai piani americani alle mezze figure ai primi piani, i tagli di visione si concentrano, quasi a raccogliere meditativamente la luce, esclusivamente su dettagli e pose dei corpi.
Il monumento così apparentemente inscalfibile si rivela via via al fotografo una trama di forme in incessante ibridazione, nel corso degli anni, nel giro delle stagioni, nell’azione degli agenti atmosferici: così ci restituisce quei corpi bronzei come materie e come reticolo di segni, ma materie che patiscono, che hanno l’impronta dell’anima.
Dopo il bel testo critico di Fausto Lorenzi e l’intervista agli autori formulata da Anna Lisa Ghirardi, è il monumento in sé ad essere preso in considerazione.
Ecco, in sintesi, come viene raccontato: “Di fronte al monumento è il lago: una profonda insenatura lungo cui corrono in piano la passeggiata pedonale e le antiche Rive; quindi s’innalza la lunga fila di cipressi che protegge i morti nel camposanto.
Il monumento, posato su un piedistallo di pietra bianca di Botticino, ha di fronte, sullo sfondo, la scalinata del cimitero vantiniano; sull’ultima balza, nelle pareti della chiesa e della cripta, giacciono le ossa dei soldati che perirono nelle guerre combattute sui diversi fronti.
A prima vista il monumento è una massa bronzea compatta. Più ti avvicini, però, più lo decifri nei suoi contorni e lo leggi fin nei minimi dettagli.
Due soldati sorreggono un loro commilitone ucciso sul campo. L’occhio segue le linee dei corpi, scorge la pesantezza delle uniformi, va sull’elmetto e sul cappello da alpino, si ferma sui volti di ragazzi troppo presto mandati in guerra a rischiare o a immolare la vita per gli ideali patriottici.
Il pensiero va a una Pietà scolpita nella pietra o ad una Deposizione (penso a Raffaello e Caravaggio): ecco un braccio penzoloni del soldato esanime, ed ecco le mani nodose dei soldati, unite nel sorreggere il peso del loro compagno, in totale abbandono, orizzontale.
Il suo viso inerte mantiene una forte carica espressiva: le piogge e i venti, la polvere mista agli escrementi dei volatili posatisi su quel profilo esangue gli hanno stampato addosso dei rivoli verdastri, gli hanno ricamato un velo che sembra proteggerlo da nuove ingiurie e ferite.
Più che alla vittoria questo è un monumento al dolore, un canto funebre che si eleva sulla dolente verità della morte.
Così l’ha voluto Angelo Zanelli da San Felice il quale, tuttavia, l’avrebbe voluto posizionato in un luogo meno scenografico, privo di connotazioni da salotto urbano, fuori dalla città storica.
Il giorno della sua inaugurazione cadde l’ 11 maggio 1930, oltre undici anni dopo la fine della guerra.
Alla presenza di Umberto di Savoia, Principe di Piemonte. Quel giorno era presente anche il vescovo di Brescia, Giacinto Gaggia, per la benedizione di rito, il quale mai avrebbe pensato di presenziare a una tal cerimonia di fronte a un pullulare di camicie nere e di alte uniformi.
Aveva cercato di sottrarsi all’incombenza con tanto di biglietto autografo indirizzato al Podestà (custodito presso l’archivio storico salodiano) perché – diceva – quel servizio non rientrava nelle competenze di un vescovo.
Ma del comitato per la realizzazione del monumento faceva parte anche il Parroco di Salò, mons. Bodeo, ivi designato nel 1920, prima che il fascismo salisse al potere, e non volle abbandonarlo in quel frangente.
La vicenda del monumento fu tanto tormentata se arrivò a concludersi dopo due lunghi lustri.
 
Nemmeno undici anni dopo essere stato inaugurato, nel 1941, questo monumento rischiava di entrare nel novero dei bronzi da fondere perché la patria aveva bisogno di cannoni per la guerra.
Prefettura di Brescia e Soprintendenza di Milano avviarono un censimento, secondo le indicazioni emanate dal Ministero dell’Educazione.
L’Associazione Combattenti di Salò ne sconsigliò la rimozione e diede parere favorevole alla conservazione per “i notevoli pregi artistici” dell’opera e per il nome dello scultore, lo stesso che aveva realizzato il grande fregio marmoreo all’Altare della Patria in Roma.
Nella relazione inviata dal Soprintendente al Ministero il 20 luglio 1941 il monumento di Salò fu l’unico della sua tipologia, insieme al monumento a Zanardelli, a venire proposto per la sua conservazione.
E il Ministero si astenne dal fonderlo “per il suo elevato valore artistico”.

la vernice, la mostra

le immagini

echi di cronaca
Torna ai contenuti