marocco - pino mongiello

pino mongiello
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marocco

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Nella grande piazza di Marrakesh, dove tutto sembra mutare all’improvviso e suoni diversi si uniscono per dare risalto all’incantesimo delle fiabe antiche, e persone e animali si confondono suscitando in chi li osserva timore e stupore, è inevitabile chiedersi se quello che si vede è reale o finto: se davvero le cose accadono per svolgimento naturale o non, invece, per soddisfare, o ingannare, il turista. Non importa se non trovo una risposta.
Penso al percorso fatto lungo la catena dell’alto Atlante per giungere a Marrakesh, tra tornanti che costituiscono un unico cantiere stradale, davvero un’opera gigantesca, e rivedo con la memoria le alte vette, le dorsali montuose tinte di rosso e di giallo, secondo la presenza di minerali che predominano, e riascolto le raffiche di vento che scendono dalle vallate, mi pare di aver attraversato un mondo fatato.
I monti e gli altipiani dell’Atlante sono abitati dai Berberi, dagli occhi scuri e dalla pelle chiara, avvolti in vesti color indaco: così contraddistinti si riconoscono da molto lontano. I Berberi hanno dovuto battersi perché la loro lingua potesse essere riconosciuta come costitutiva, al pari dell’arabo e del francese, della nazione marocchina. Oggi il berbero si studia a scuola, e compare tra le scritte ufficiali negli uffici pubblici. I loro borghi sono fatti di terra cruda mista a paglia, ornati di disegni geometrici, decorati e incisi sulle facciate delle case e dei palazzi antichi. Le loro città sorgono accanto ai corsi d’acqua, e sono incorniciate in oasi rigogliose, dove prospera la palma da datteri. Visti a distanza, assomigliano a ad antiche stampe colorate, dove prevalgono il verde e l’ocra. Da vicino, e nel reticolo delle vie, si scopre una vita lenta e meditativa: uomini attorno al tavolino di un bar improvvisato, accanto alla bottega del fabbro; ragazze in bicicletta, con la cartella o lo zainetto sulle spalle, mentre vanno a scuola; impalcature di legno addossate alla parete di una casa in costruzione, tappeti e foulard dai mille colori, al vento, per attrarre l’attenzione del turista. E, appena fuori l’abitato, greggi di pecore: la loro lana si confonde coi colori delle rocce e della sabbia del deserto: un deserto sempre presente, in agguato, e in conflitto con le aree fertili che hanno creato una loro striscia presso il fiume.
I volti delle persone sono espressivi: sono segnati dalla storia e dal clima del territorio. C’è una sapienza antica nei loro occhi, c’è tristezza e speranza, ed anche un guizzo di furbizia levantina. “Italiano”? – mi chiede un signore sui trent’anni. – “Conosco l’Italia: raccolto pomodori in Puglia, mele in Val di Non; tappeti sulle spalle, vu cumprà?” e ride. Adesso è tornato in Marocco, per sempre. “Qui la vita è in fermento. Il Marocco accoglie profughi che scappano dall’Africa centrale. L’economia è in crescita. Ora l’Italia che sognavo è qua in Marocco!” E mi stringe la mano con un sorriso sincero.

pubblicato il 23 dicembre 2019 su www.gruppo2009.it nella sezione "album fotografici".




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